Apicoltura urbana in Italia, motore di innovazione sociale. Non c’è alcuna innovazione in una pratica di agricoltura anche se cittadina. Assistiamo a esaltanti racconti di giovani apicoltori in tutte le città del mondo in cui emerge il tratto distintivo, quello di allevare api sui tetti delle case e fare biomonitoraggio. Ma l’apicoltura urbana è davvero questo? Per primi togliamo il velo a un nuovo progetto nazionale, scopriamo l’apicoltura urbana italiana.
Apicoltura urbana in Italia, storia e virtù
L’apicoltura in Italia – come si è già accennato – è un settore cruciale della zootecnia nazionale. Non solo per il valore economico delle sue produzioni, ma soprattutto per la funzione dell’ape e delle altre migliaia di specie sue simili. A servizio della produzione agricola e della biodiversità, vale a dire della protezione delle aree rurali e silvestri non soggette a coltivazione intensiva appestata da venefici pesticidi.
A don Giacomo Angeleri si deve l’esperienza più significativa per lo sviluppo dell’apicoltura moderna, ai primi del ‘900. Don Angeleri sperimentò infatti una forma innovativa di conduzione delle api in arnie ed ebbe la capacità di divulgare e diffondere tale pratica, molto simile a quella tuttora in uso. Le sue api si trovavano sulle rive del Po, a Torino, ove fino a poco tempo era ancora presente il suo apiario sperimentale. E sempre a lui si deve l’idea di un pionieristico un chiosco di street food, la Casa del Buon Miele, aperta nel 1920 davanti a Palazzo Reale. Per sensibilizzare i cittadini alle virtù del nettare delle api e promuovere l’educazione alimentare.
L’apicoltura urbana moderna si basa sulle esperienze dei primi anni ‘80, quando le università di Torino e Bologna introdussero l’idea di impiegare le api come ‘matrici ambientali’, quali sentinelle di misurazione della salute dell’ambiente. In età più recente, il progetto ‘Api e Orti Urbani’ ha consentito di realizzare in alcune città italiane (Milano, Bologna, Potenza, Torino) analisi ambientali i cui primi esiti (2017-2018) sono stati presentati il 30.1.19 alla fondazione FICO. Grazie alle api e ai loro cultori, in un solo anno la città di Milano ha registrato il drastico abbattimento dei livelli di pesticidi. È bastato chiedere e ottenere dall’amministrazione comunale la sospensione dei trattamenti delle aree verdi, nei periodi di fioritura delle piante mellifere, con glifosate e altri pesticidi. Per recuperare, già in 12 mesi, almeno un po’ di salute per l’ecosistema e i suoi abitanti.
Apicoltura in città e pascoli per le api vs. apicoltura urbana
Allevare api richiede un’apposita formazione e molta pratica, per essere in grado di affrontare i non pochi pericoli che gli animali possono incontrare (es. predatori, patologie). A ciò si aggiungono le responsabilità e gli oneri legali, che sono prescritti per gestire un’arnia come un pollaio e altre attività di zootecnia. Registri sanitari, tracciabilità, buone prassi igieniche e autocontrollo, trattamenti obbligatori contro l’acaro Varroa Destructor, conformità del laboratorio di produzione ai requisiti igienico-sanitari.
Condurre le api in città, produrre miele metropolitano, mantenere le arnie sui tetti non è però apicoltura urbana. È semplicemente zootecnia, una pratica di conduzione di animali selvatici svolta in città ma pur sempre e soltanto apicoltura, dunque apicoltura in città. Non vi è innovazione né restituzione di valore nella città ospitante, né esiste un percorso obiettivo di salvaguardia della biodiversità. E anzi, ove condotta senza adeguata preparazione, può risultare anche dannosa per i residenti. (1)
I progetti di apicoltura in città – quand’anche finalizzati al profitto, ad attività ‘no profit’ o educative – riguardano pur sempre attività di allevamento. Né più né meno di quanto si può realizzare con gli asini o i cavalli. E gli esempi di ‘beekeeping’ sono numerosi, da San Francisco a Toronto, Copenaghen, Dublino, Londra, Sidney, Tokyo, Parigi, Detroit, Kampala, Seul, New York, Amsterdam, Montague, Belfast, Giacarta, Berlino. Le città offrono del resto pascoli straordinari, sia per varietà che per quantità. (2) A riprova di ciò, un simpatico aneddoto. Al Sesto Convegno Nazionale di Apicoltura Urbana, presso la Libera Università di Bolzano, una delle più grandi esperte di analisi sensoriale del miele – sottoposta a ‘blind test’ (assaggio ‘alla cieca’) – ha apprezzato la profusione degli aromi caratteristici dei mieli di montagna. In un miele che invece proveniva da un quartiere di Londra. La ‘Greater London’ contava infatti più di 3500 alveari nel 2013. (3) Forse troppi, secondo l’entomologo Francis Ratnieks, il quale ha lanciato un monito che gli apicoltori urbani d’Italia hanno a loro volta raccolto, nel 2017.
‘Si può essere apicoltori urbani anche senza allevare le api. Bensì contribuendo a produrre pascoli per impollinatori’. Gli apoidei sono migliaia, dalle osmie ai bombi. E ciascuno nel suo piccolo, anche nelle scuole, può creare con semplicità ‘pascoli per le api’ (da miele e non). Coltivando fiori e piante mellifere, come le erbe aromatiche (es. salvia, timo, menta, lavanda, rosmarino) e le spezie, il girasole e il trifoglio. Piuttosto che specie esotiche o aliene (es. acacia). Un’attività certo più semplice della conduzione di un alveare, e pur tuttavia altrettanto preziosa.
La comunità scientifica e le associazioni di apicoltura nazionale, del resto, hanno ribadito che le api non sono animali addomesticabili. Seguono invece – e per fortuna – rigorose abitudini e comportamenti che si sono evoluti nel corso di milioni di anni. Sono animali che hanno sviluppato un sistema sociale praticamente perfetto e la loro presenza in città, dal punto di vista del rapporto uomo-ape, non comporta alcuna possibilità di influenzarne il comportamento.
Le api vivono in autonomia, provvedono alla ricerca del cibo e si riproducono autonomamente. Sebbene sia dimostrato che esse possano adattarsi alle aree urbane persino meglio ancora che alle aree rurali circostanti. Per queste ragioni il nostro rapporto con gli insetti melliferi non produce cambiamenti, fatta eccezione per le conseguenze (a volte negative) del loro sfruttamento per finalità produttive, come può avvenire in ambito agricolo. Se pure provassimo a parlare loro per ore, imbrigliarle in involucri diversi, proteggerle e persino fornire loro cibo le api non cambierebbero il loro comportamento e il loro rapporto con l’ambiente. Sono e restano animali selvatici.
Apicoltura urbana e innovazione sociale
Cos’è allora l’apicoltura urbana e come si distingue dall’attività zootecnica tradizionale, dentro e fuori la città? L’innovazione non è materiale, le arnie sono le stesse e non v’è nulla di nuovo, all’apparenza. Il biomonitoraggio a sua volta non è nuovo né distintivo. La vera novità dell’apicoltura urbana è invece rappresentata dal valore sociale di una condivisione – grazie alle reti di individui consapevoli ed esperti – che aspiri a favorire il miglioramento della qualità della vita di tutti. I progetti aggregati dei singoli gruppi di individui sono rivolti al beneficio della collettività. Stimolando le relazioni tra i cittadini e l’ambiente, la solidarietà. Ed è così che l’apicoltura si traduce in uno strumento per introdurre cambiamenti favorevoli.
‘Apicoltura urbana non è un semplice settore della zootecnia, ma un movimento culturale. Una costellazione di temi e interessi, le api per contribuire a ridare radici a chi ha dovuto emigrare, uno sbocco creativo a chi è limitato da una disabilità, un’idea positiva di libertà a chi è temporaneamente carcerato, il pretesto per proporre una partecipazione attiva e appassionante dei cittadini alla salvaguardia della biodiversità, dal mantenere alveari urbani al coltivare fonti di pascolo per le api e per gli altri apoidei.
Sufficientemente staccata dalla necessità di fare reddito può realizzare una forma avanzata di rispetto del benessere animale. Legata alla città, che è il centro della comunicazione, può sfociare in forme d’arte, coinvolgere scuole e bambini a scoprire in città ritmi e espressioni della vita naturale, promuovere la produzione locale di cibo, servire a misurare la qualità dell’ambiente attraverso le api.’
‘Apicoltura urbana come motore di innovazione sociale’, la tesi prodotta al Politecnico di Torino ‘Architettura e Design industriale’ da Cecilia Roella, ricorre alla metafora della costellazione per meglio esprimere la biodiversità – e la necessità di vivere in città sempre più funzionali e integrate – che questo approccio promuove. Ed è questa la chiave di lettura, che va oltre la zootecnia e la produzione di miele, i quali a loro volta sono archetipi di allevamento indipendenti dal concetto di urbanità.
Le priorità dell’apicoltura urbana sono perciò diverse rispetto alla semplice produzione di miele. Poiché orientate verso l’amore della natura e bellezza, il rispetto verso gli impollinatori e il loro benessere. Ricordando che essi stessi possono provare emozioni, (4) vivere momenti di forte stress (Donald Broom, Università di Cambridge) e soffrire, generando tra l’altro sostanze oppioidi. (5)
Apicoltura urbana, la rete mondiale per la biodiversità
Una rete mondiale per la promozione e la tutela della biodiversità sarà inaugurata il 20 maggio 2019 in tutto il pianeta. Abbiamo incontrato (Cortese) alcuni dei suoi partecipanti a Terra Madre, ogni due anni, insieme ai delegati apicoltori urbani di ogni parte del mondo. Li possiamo rivedere nella puntata di Linea Verde, RAI, 26.11.16. Le testimonianze in Italia non mancano:
– a Torino, con la ‘Comunità del Cibo degli Apicoltori Urbani’, il Parco del Nobile, le ‘Api In Città’, l’Università di Torino e i giovani apicoltori della rete locale. I quali si dedicano a progetti integrati con ‘Orti Metropolitani’, per impollinare 17mila metri quadri di orti urbani. Nonché a programmi di biomonitoraggio e di educazione ambientale, nelle scuole primarie e secondarie,
– ad Alessandria, l’Associazione APS Cambalache ha introdotto l’idea rivoluzionaria ‘Bee My Job’. Per mettere in relazione apicoltori professionisti con immigrati ex vittime del caporalato, i quali così imparano un mestiere splendido e diventano giovani imprenditori,
– a Milano, che ha dato impulso all’apicoltura urbana fornendo corsi e laboratori con le scuole e si distingue per una piattaforma web volta ad aiutare i neofiti all’apicoltura,
– a Cremona, ove il gruppo ‘Cremona Urban Bees’ mette a disposizione della cittadinanza un apiario e propone corsi di apicoltura. Fortemente voluto dalla cittadinanza, è un progetto di bene comune nato dai cittadini stessi e dal bisogno di creare momenti di aggregazione e di sensibilizzazione sull’ambiente,
– a Bologna, vicino al CAAB si portano avanti progetti di biomonitoraggio e presto, con FICO e Università di Bologna, un apiario didattico. Il 13.4.19 Linea Verde ha mostrato il progetto di ‘Beeing’,
– a Cesena, un progetto che coinvolge la città stessa si accinge ad aderire al progetto europeo ‘Bee Path Net’ con altre città europee tra cui Barcellona e Lubiana, capitale storica di integrazione uomo-ape,
– a Latina ‘Bees in town‘, operativa già da 5 anni. Mentre a Roma proprio in questi giorni è stata costituita la prima associazione, ‘Api romane’. Per presidiare aree svantaggiate con progetti di sistema, insieme ad associazioni di genitori, scuole, produttori,
– a Potenza i giovani di Legambiente, dopo avere recuperato e bonificato un terreno contaminato, lo hanno trasformato in orto sociale e poi apiario. A gestirlo è un ex detenuto che ha iniziato il suo percorso di ‘libertà’ proprio con gli impollinatori,
– e ancora Segrate, Bolzano, Reggio Emilia, Firenze (prossima sede del convegno nazionale), Bari, Napoli e Palermo portano avanti progetti virtuosi.
Apicoltura urbana, il modello italiano
Il modello italiano di apicoltura urbana, attraverso questi testimoni e il percorso che stanno percorrendo, propone una visione innovativa di rapporto con la natura. Se l’ape e l’uomo fossero paritetici, la nostra esperienza con le api sarebbe più ricca e più rispettosa di questi animali a cui tanto è dovuto. Il contemplare e gioire della loro compagnia senza chiedere né pretendere altro, immersi in un paesaggio ameno di natura viva. L’idea di convivere, innescando un premio reciproco si chiama convivialità interspecifica.
Paolo Faccioli, nel suo penultimo libro ‘Dall’altra parte dell’affumicatore’, impone una presa di coscienza. La produzione del 70% dei nostri cibi dipende dall’attività e dal benessere degli insetti impollinatori (fonte FAOstat). Ma la sopravvivenza di tali specie, e così della nostra, è legata a una serie di fattori che impongono una scelta drastica, come cittadini e consumAttori. Il sistema deve cambiare, per mitigare il cambiamento climatico e bonificare l’ambiente. È necessario attuare l’agroecologia, eliminare o comunque ridurre drasticamente sia l’impiego di pesticidi, sia le superfici coltivate con monocolture.
La rete nazionale – che il 20.5.19 mostrerà il suo nuovo volto – vuole difendere un modello di apicoltura che possa essere a servizio alle città e ai cittadini. Per sottolineare che le api non sono solo miele o inquilini dei tetti ‘radical-chic’ ma un sistema naturale complesso. E ciascuno di noi dovrebbe imparare a comprenderlo, liberandosi dal paradigma dell’allevare api in città. La città va piuttosto intesa come un luogo di resilienza e di innovazione. L’apicoltura urbana è molto di più. E da oggi è aperta a tutti, se ciascuno di noi vuol contribuire a difenderla o a offrire pascoli di fiori e piante mellifere.
Guido Cortese e Dario Dongo
Note
(1) Basti pensare a innumerevoli sciami di api che si aggrappino a infrastrutture antropiche (es. grondaie, davanzali, dehor, sedie). Laddove un bravo apicoltore deve cercare di ridurre le sciamature, se pure si tratti di un fenomeno naturale. Si pensi anche a una sola famiglia con le bottinatrici che a giugno escano dall’alveare, una decina di migliaia di api che rilascino escrementi sulle lenzuola o i parcheggi. Tecnica e preparazione sono indispensabili per prevenire e mitigare tali fenomeni
(2) Cfr. Francesca Cirio, ‘GIS e bioindicatori: metodologia di analisi sulla base di dati melissopalinologici nell’attività di pianificazione urbana a Torino’ (tesi di laurea in Sistemi Informativi Geografici di Interfacoltà Torino-Milano)
(3) Francis Ratnieks (2013). ‘To Bee or Not To Bee’, The Biologist Vol 60(4) p12-15, http://www.lbka.org.uk/downloads/urban_beekeeping_the_biologist.pdf
(4) ‘Honeybees exhibit a vertebrate-like emotional state’. Cfr. Melissa Bateson, Suzanne Desire, Sarah E. Gartside, Geraldine A.Wright. ‘Agitated Honeybees Exhibit Pessimistic Cognitive Biases’. Curr Biol. 2011 Jun 21; 21(12): 1070–1073. doi: 10.1016/j.cub.2011.05.017
(5) ‘In the honeybee an endogenous opiois system activated by isoppentyl acetate is responsible for modulation of perception for nocipetptive stimuli’. Cfr. Josuè Nunez, Lourdes Almeida, Norberto Balderrama, Martin Giurfa (1998). ‘Alarm Pheromone induces stress Analgesia via an Opioid System in the Honeybee’. Physiol Behav 63(1) 75–80, 1998. https://doi.org/10.1016/S0031-9384(97)00391-0