Il pastificio De Cecco minaccia la stampa di azioni legali: è vietato dire che la sua pasta è realizzata con grano estero. Un testacoda, più che una retromarcia, rispetto alla mansueta ed eccessiva sottomissione dimostrata quando interpellata dall’Antitrust sull’origine della sua pasta.
L’indagine del Casalingo di Voghera
La scintilla che ha infiammato De Cecco è l’indagine sul mercato della pasta di semola pubblicata da Attilio Barbieri – giornalista appassionato di consumi alimentari – il 29.4.20 sul suo blog Il casalingo di Voghera.
L’analisi delle etichette, condotta da Barbieri su 13 marche di pasta, dimostra che:
– 7 prodotti contengono esclusivamente semola da grano duro 100% italiano,
– 4 industrie realizzano soltanto alcune linee con solo frumento italiano,
– 2 marche usano sempre materie prime di importazione.
Made in Italy, basta la trasformazione in Italia
La ripresa dell’articolo e della tabella di Attilio Barbieri sul sito della rivista QB Quanto Basta ha però indotto il pastificio di Fara San Martino a intimare una rettifica, attraverso il suo ufficio legale. Adducendo che «quanto asserito nell’articolo è errato, tendenzioso e fuorviante giacché idoneo a ingenerare in chi legge false e pericolose convinzioni».
Spiega Barbieri: ‘L’affermazione con cui «si boccia l’italianità della pasta a marchio De Cecco», scrive l’azienda nella richiesta di rettifica che non ha inviato a me ma alla rivista QB Quanto basta, «oltre ad essere grave, è offensiva ed errata, giacché la pasta De Cecco è 100% “made in italy”: infatti, tanto il suo ingrediente principale (semola e non farina di grano duro) quanto l’intero processo di lavorazione e fabbricazione dell’alimento avviene esclusivamente in Italia, sicché la pasta, ai sensi dell’art. 60 del codice doganale dell’Unione, è 100% italiana».’
Le argomentazioni del pastificio possono confondere i meno esperti. Ridotte all’osso, De Cecco afferma che un prodotto realizzato con materia prima estera diventa ‘formalmente’ 100% italiano se la trasformazione ha avuto luogo soltanto nel Bel Paese. Vero. L’origine della materia prima non è comunque un mistero e chiunque, giornalista o libero pensatore, è libero di divulgare l’informazione.
Per fare un albero ci vuole un fiore
La definizione di ingrediente primario è l’altro elemento su cui ruota la lettera dell’ufficio legale di De Cecco.
Come riferisce Il casalingo di Voghera, gli avvocati di De Cecco continuano: «Quanto all’indicazione dell’ingrediente principale, non è corretto affermare che vige l’obbligatorietà di indicare in etichetta la sua origine, giacché il Regolamento di esecuzione Ue 2018/775 pone tale obbligo solo qualora l’ingrediente principale, che nel caso di specie si ribadisce essere la semola di grano duro, abbia un’origine o una provenienza diversa dall’origine o dalla provenienza dell’alimento (art. 2 del Regolamento). Sebbene la semola di grano duro e la pasta De Cecco abbiano la medesima origine, cioè l’Italia, la società, pur non essendo obbligata, si è comunque impegnata a fornire anche tale indicazione sul packaging del proprio prodotto».
Per fare un albero ci vuole un fiore, cantava Sergio Endrigo. Similmente, per fare la pasta ci vuole la semola. Per fare la semola ci vuole il grano duro. Che può essere 100% italiano, oppure no.
Bipolarismo industriale
L’atteggiamento aggressivo della De Cecco nei confronti della stampa appare invece curioso. Con buona memoria della sua estrema remissività al cospetto dell’Antitrust, appena sei mesi fa.
Per paura di una sanzione amministrativa – allorché sottoposto a indagine proprio per il vanto di ‘italianità’ di pasta realizzata anche con grano estero – il celebre pastificio ha deciso di rinnegare la propria storia e identità. Impegnandosi addirittura a cancellare la dicitura ‘metodo De Cecco’ dalle proprie etichette.
Errori di strategia che bruciano, forse. Ma non possono né devono venire imputati alla stampa, ancora orfana di un meccanismo che punisca in modo esemplare chi tenta di legare il bavaglio con la minaccia di azioni temerarie.
La pasta De Cecco viene realizzata anche con grano importato dall’estero. Tutto qui, banalmente.
Marta Strinati
Giornalista professionista dal gennaio 1995, ha lavorato per quotidiani (Il Messaggero, Paese Sera, La Stampa) e periodici (NumeroUno, Il Salvagente). Autrice di inchieste giornalistiche sul food, ha pubblicato il volume "Leggere le etichette per sapere cosa mangiamo".