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Agricoltura biologica e residui da sostanze non ammesse. I guai in Italia

La presenza di residui di sostanze non ammesse in agricoltura biologica in Italia è di rado attribuibile a intenzioni fraudolente degli operatori. Di regola la circostanza è da collegare a falsi positivi, contaminazioni inevitabili, input irregolari autorizzati però dal ministero e da recenti perversioni normative. Un excursus.

1) I falsi positivi

Cominciamo con i falsi positivi, ossia con i risultati di un’analisi che indicano erroneamente la presenza di una sostanza che, invece, non è presente.

È appurato che, sia con la gascromatografia che con la spettrofotometria, alcune matrici danno falsi risultati positivi nella determinazione di specifici analiti.

Solo per citare alcuni casi: le analisi di rucola e capperi indicano la presenza di ditiocarbammati (una famiglia di anticrittogamici non ammessa in agricoltura biologica) dovuta invece alla composizione naturale del prodotto. Lo stesso fenomeno si registra con le crucifere (cavoli, broccoli, verze etc.), con le allioideae (aglio, cipolla), con alcune aromatiche (basilico, prezzemolo).

1.1) Il caso di leguminose, riso e altri cereali

Il CREA (Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’analisi dell’Economia agraria, vigilato dal ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste) nel settembre 2023 ha presentato i primi risultati di uno specifico progetto di ricerca dal quale emerge in alcune leguminose la produzione endogena di acido fosfonico (che è anche il principale metabolita dell’anticrittogamico Fosetil Alluminio, non ammesso in agricoltura biologica) che, in precedenza, si riteneva derivare esclusivamente dall’uso di input esterni.

È noto che il riso e altri cereali (grano, mais, orzo) contengono naturalmente acido gibberellico (un fitoregolatore non ammesso in agricoltura biologica e, per quanto riguarda i cereali, nemmeno in quella convenzionale), ma la stessa sostanza è naturalmente presente negli spinaci e nella cipolla.

1.2) Anche l’acqua è a rischio residui

Nonostante l’autorizzazione di tutte le sostanze antiparassitarie contenenti clorati sia stata revocata con la decisione della Commissione 2008/865/EC, i clorati sono inseriti nell’allegato III del regolamento (CE) n. 396/2005, con ciò venendo parificati alle sostanze antiparassitarie.

Ma nei Paesi civili il trattamento dell’acqua al fine di controllo dei germi patogeni è effettuato dai gestori del servizio idrico proprio con sostanze clorate (ipoclorito di sodio o biossido di cloro, attivi contro batteri, spore e taluni virus). Le pratiche dell’ozonizzazione dell’acqua o del suo trattamento con raggi UV sono di gran lunga meno diffuse (e, comunque, fuori del controllo degli operatori del settore alimentare).

1.3) Il processo di potabilizzazione dà luogo a inevitabili residui di clorato nell’acqua

Il ricorso ad acqua pulita potabilizzata è intuitivamente considerato necessario ed è esplicitamente richiesto dai disciplinari di sicurezza alimentare al fine di minimizzare i possibili rischi igienici.

Ma la stessa EFSA conferma che tali residui possono dar luogo alla presenza di clorato negli alimenti per i quali si sia utilizzata l’acqua per la lavorazione, per la disinfezione delle attrezzature di lavorazione se non come ingrediente. (1)

Il LMR (Limite massimo di residui) per il cloro nell’acqua potabile è di 0,7 mg/l (ben 70 volte 0,01 mg/kg, valore massimo tollerato dalla normativa italiana nei prodotti biologici), dal che deriva che l’utilizzo come ingrediente di acqua potabile erogata dal servizio pubblico può comportare facilmente il superamento della soglia (ma il rischio c’è anche con il semplice lavaggio della materia prima effettuato con acqua dichiarata sicura e potabile dal gestore del servizio idrico).

Non basta, quindi, che da un’analisi risulti la presenza di un determinato principio attivo. Il dato analitico dev’essere valutato correttamente e interpretato dal punto di vista tecnico.

2) La contaminazione inevitabile

È assodato un “effetto deriva” dei pesticidi. Solo una piccola parte delle sostanze utilizzate in agricoltura raggiunge il bersaglio (sia esso una coltura o un infestante), il resto si diffonde nell’ambiente circostante con la dispersione aerea di particelle, il ruscellamento e la percolazione, con effetto variabile in base alle apparecchiature utilizzate, alle temperature ambientali, all’umidità relativa, alla velocità del vento, alle condizioni atmosferiche e ad altri parametri.

La deriva può interessare distanze da pochi metri a più chilometri. Tant’è che numerosi studi hanno rilevato una contaminazione diffusa da pesticidi anche in aree che si riterrebbero incontaminate. È stata accertata in carotaggi profondi oltre 100 metri sui ghiacciai e nelle acque di fusione degli ormai esausti ghiacciai distribuiti lungo l’arco alpino, con gli ovvi rischi per gli ecosistemi acquatici dei corsi d’acqua di sorgente.

Uno studio recentemente pubblicato su Nature – Communications Earth & Environment (2) conferma che i pesticidi vengono trasferiti ben al di fuori delle coltivazioni trattate e possono colpire animali e piante anche assai lontani da queste.

2.1) I pesticidi dei meleti ‘convenzionali’ fin sulle vette delle montagne

Lo studio ha campionato suolo e vegetazione lungo una dozzina di fasce altitudinali della Val Venosta (la più grande area di coltivazione di mele d’Europa) rilevando 27 sostanze (10 insetticidi, 11 fungicidi e 6 erbicidi) provenienti dai meleti.

La mappatura basata sul rilevamento indica che le miscele di pesticidi sono presenti ovunque, dal fondovalle dove insistono i meleti su cui sono effettuati i trattamenti fino alle vette delle montagne, passando per le aree di conservazione del Gruppo di Tessa e nel Parco nazionale dello Stelvio, intorno al massiccio dell’Ortles-Cevedale.

2.2) Contaminate le acque superficiali e profonde

Nel suo periodico ‘Rapporto nazionale pesticidi nelle acque’ (3) l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, l’ente pubblico di ricerca del ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica), dopo aver indicato a chiare lettere che ‘La presenza di pesticidi nelle acque comporta potenziali effetti avversi sulla salute dell’uomo e sull’ambiente’, dà atto che, a livello nazionale, nel 2021, si sono riscontrati residui di prodotti fitosanitari nel 55,6% delle stazioni di monitoraggio delle acque superficiali (fiumi, laghi e acque di transizione), di cui il 28,3% supera i valori limite stabiliti dalle normative.

Per le acque sotterranee, invece, è il 23,2% dei punti di monitoraggio a presentare residui, con il 6,8% che supera gli standard di legge.

L’intenso utilizzo agricolo, insomma, fa sì che la presenza di pesticidi sia diffusa non solo nelle acque e nelle aree della pianura padano-veneta, ma anche al Centro-Sud (dove sta venendo alla luce grazie alla migliore efficacia del monitoraggio), e pure nelle montagne oltre i 2000 metri.

2.3) Le responsabilità e i danni

Se non è possibile incolpare il personale del Landesforstkorps altoatesino (che pure è tenuto, tra i numerosi altri compiti, alla tutela e alla sorveglianza sulle attività suscettibili di nuocere all’integrità dell’ambiente naturale e dei suoi equilibri ecologici e ad applicare vincoli volti alla protezione) perché nei prati d’alta quota dove sbucano le marmotte le analisi trovano anticrittogamici usati nei meleti del fondo valle, non si vede come sia possibile incolpare un agricoltore biologico per la presenza degli stessi anticrittogamici sulle foglie dei suoi meli non trattati. Anzi, dovrebbe essere indennizzato.

La contaminazione diffusa è tale che la direttiva 2006/125/CE della Commissione del 5 dicembre 2006 ammette che il divieto di utilizzare alcuni antiparassitari nei prodotti agricoli utilizzati per la produzione degli alimenti destinati ai lattanti e ai bambini “non garantisce necessariamente che i prodotti non contengano gli antiparassitari, in quanto alcuni di essi contaminano l’ambiente, per cui si possono trovare i loro residui nei prodotti” (considerando 13) e “alcuni antiparassitari degradano lentamente e continuano a contaminare l’ambiente, per cui potrebbero essere presenti negli alimenti a base di cereali e negli altri alimenti destinati ai lattanti e ai bambini, pur non essendo stati utilizzati” (considerando 15).

Ammettendo la sconfitta, la direttiva indica che gli alimenti destinati a lattanti e ai bambini non devono contenere residui di singoli antiparassitari in quantità superiori a 0,01 mg/kg, considerata come soglia di contaminazione involontaria tecnicamente inevitabile.

3) Il DM 309/2011

Il 13 gennaio 2011 il ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali (allora guidato da Giancarlo Galan) emanò il DM 309/2011 che introduceva per i prodotti biologici la soglia di 0,01 ppm di residui.

Il prodotto che avesse presentato residui di pesticidi oltre tale soglia (che equivale a un grammo di sostanza su 100 tonnellate) non poteva in nessun caso essere commercializzato con la certificazione di produzione biologica, nemmeno se l’indagine ufficiale da parte dell’organismo di controllo avesse determinato la contaminazione come involontaria o inevitabile.

Se rilevavano la presenza di una sostanza non ammessa in agricoltura biologica sotto la soglia, i laboratori degli organi di controllo pubblici erano tenuti a esprimere un giudizio di regolarità del campione e a interessare l’organismo di controllo, che era tenuto ad avviare l’indagine ufficiale sull’operatore, per valutare fonte e causa della presenza indesiderata.

Se dalle indagini risultava un uso intenzionale o l’inadeguatezza delle misure precauzionali (per esempio, impianto di siepi alberate che fungessero da barriera meccanica, fascia tampone non coltivata al confine), la certificazione veniva ritirata anche se la presenza era sotto soglia, con tanto di sanzioni applicate all’operatore.

4) Cosa dice (invece) il regolamento europeo

Delle misure precauzionali volte a evitare la presenza di prodotti e sostanze non autorizzati si occupa l’articolo 28 del regolamento UE 848/2018.

La norma prevede che per evitare la contaminazione con prodotti o sostanze non autorizzati, gli operatori debbano prendere misure precauzionali in tutte le fasi della produzione, della preparazione e della distribuzione.

Devono adottare, mantenere e adattare periodicamente misure proporzionate e adeguate per individuare i rischi di contaminazione, con l’identificazione sistematica delle fasi procedurali critiche, e rispettare tutti i pertinenti requisiti del regolamento volti a garantire la separazione tra prodotti biologici e non biologici.

Gli operatori biologici non possono prendersela con il mondo malvagio (e inquinato), ma devono prendere misure ragionevoli, proporzionate e adeguate per evitare i rischi:

– piantumazione di siepi arboree che fungano da barriera meccanica,

– fasce di rispetto,

– monitoraggio delle file più prossime ai confini,

– responsabilizzazione dei confinanti affinché utilizzino attrezzature che riducano la deriva e non trattino in giornate ventose.

Poi, va da sé, se la contaminazione non è conseguenza della deriva, ma dipende dalla contaminazione dell’acqua, non è che si possano prendere chissà quali misure precauzionali.

4.1) Il ruolo attivo dell’operatore

Il regolamento stabilisce che se l’operatore ha motivo di sospettare la non conformità di un prodotto biologico di sua produzione o fornitogli da altri, debba identificarlo e separarlo, immettendolo sul mercato solo dopo aver eliminato il sospetto di non conformità.

Se il sospetto rimane, il blocco del prodotto va confermato ed è necessario informare immediatamente l’organismo di controllo o l’autorità competente, cui passerà il compito di accertare la fondatezza del sospetto, verificando fonte e causa.

Per la norma europea l’operatore ha un ruolo attivo: se trova sul suo grano residui entro i LMR di una sostanza che non ha alcun effetto tecnico sul grano, ma ce l’ha sui vigneti dei confinanti, da cui pure il suo grano è separato precauzionalmente da un’alta siepe di pruno e di cipresso e da una fascia tampone, può ben concludere che il suo prodotto è conforme e che il sospetto era infondato.

Manterrà la documentazione della procedura a disposizione dell’organismo di controllo (con cui può anche confrontarsi preventivamente) e dell’autorità competente a dimostrazione della conformità del suo operato.

5) Il caso dell’acido fosfonico e l’ennesima deviazione della normativa italiana

In particolare nel decennio scorso operatori, organismi di controllo e organi di vigilanza hanno cominciato a registrare sempre più frequenti positività anali­tiche all’acido fosforoso, il metabolita principale del fosetil alluminio, fungicida sistemico non au­torizzato nella produzione biologica.

La positività analitica oltre lo 0,01 mg/kg ha comportato via via la decertificazione di ingenti quantità di prodotto, declassato a convenzionale, con ovvio impatto economico sugli operatori e operativo sul sistema di controllo, con il sovraccarico di ispezioni sup­plementari, campionature e verifiche analitiche e con l’aumento della classe di rischio degli operatori ritenuti non conformi.

Nel 2016 la pressione degli operatori, comprensibil­mente preoccupati per la crescente frequenza del fenomeno, indusse il ministero (all’epoca guidato da Maurizio Martina) ad affidare al CREA il progetto Biofosf – ‘Strumenti per la risoluzione dell’emergenza “fosfiti” nei prodotti ortofrutticoli biologici’.

5.1) La ‘scoperta’ di input indicati dal ministero ma contaminati

Dal progetto sono emerse alcune importanti evidenze scientifiche.

Innanzitutto si è accertata la presenza non dichia­rata di acido fosforoso in alcuni preparati a base di rame fertilizzanti a base di microelementi e in concimi organici a base di alghe che pure il portale del SIAN – Sistema Informativo Agricolo Nazionale – qualificava come consentiti in agri­coltura biologica.

In altre parole, il ministero indicava come tranquillamente utilizzabili mezzi tecnici che, invece, erano contaminati, per poi sanzionare gli agricoltori che, dopo aver verificato il semaforo verde dell’autorità competente, li acquistavano e li utilizzavano.

Ancora più importante, si è accertato un fenomeno di bioaccumulo nelle parti legnose nelle piante con traslocazione a foglie e frutti prolungata nel tempo (oltre 5 anni): nelle produzioni arboree, la positività analitica era conseguenza certa (e assolutamente inevitabile) dell’uso legittimo di mezzi tecnici con acido fosforoso o semplicemente fosforo prima della conversione al metodo biologico.

Dal lavoro del CREA si può concludere che gli operatori ai quali, negli anni, erano state declassate tonnellate di prodotto ortofrutticolo e che avevano ricevuto sanzioni, erano del tutto innocenti.

5.2) Le nuove soglie del decreto Patuanelli

Veniva quindi emanato il decreto ministeriale 10 luglio 2020, n. 7264 (ministro Stefano Patuanelli), che fissava la soglia di acido fosforoso in 0,05 mg/kg. Quest’ultima, in via di deroga fino al 31 dicembre 2022, veniva aumentata a 0,5 mg/kg per le colture erbacee e ben 1,0 mg/kg per quelle arboree (il successivo decreto ministeriale 22 dicembre 2022, n. 658304 poi prorogava le soglie al 31 dicembre 2025).

Nel frattempo, come già detto, dai risultati preliminari di un nuovo progetto di ricerca del CREA sta emergendo l’evidenza di un’au­toproduzione di acido fosforoso da parte di numerose leguminose, che probabilmente comporterà un nuovo aggiornamento del decreto.

6) Il diavolo sta nei dettagli

Il successivo decreto legislativo 6 ottobre 2023, n. 148 (ministro Francesco Lollobrigida) stabilisce all’articolo 8 (condizioni di non conformità) che la caratteristica biologica è da ritenersi compromessa quando è rilevata la presenza di una sostanza non ammessa e all’articolo 16 (Obblighi degli operatori) che “L’operatore può eliminare il sospetto di non conformità dovuto alla presenza di una sostanza non ammessa nel caso in cui possa escludere che vi sia tale presenza”.

L’operatore sul cui grano si trovi una traccia nemmeno quantificabile (sopra al LOD, limite di rilevabilità, ma sotto il LOQ, limite di quantificazione) di un principio attivo che sul grano non ha alcun senso tecnico, deve ritenere il prodotto non conforme, non può procedere direttamente a verificare fonti e cause, ma deve delegare l’operazione all’organismo di controllo.

È palese il contrasto con la normativa europea. Il LOD non è omogeneo per i diversi principi attivi, ma generalmente l’analisi permette una rilevabilità fino a 0,001 mg/kg, cioè 10 volte meno della soglia che la direttiva 2006/125/CE della Commissione qualifica come livello di contaminazione ambientale tecnicamente inevitabile.

6.1) La perversione normativa del ministero

In altre parole, il ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste autorizza gli agricoltori convenzionali (che coltivano grossomodo l’80% del territorio nazionale) a immettere nell’ambiente circa 122.000 tonnellate all’anno di centinaia di sostanze, magari etichettate “Molto tossico per gli ambienti acquatici con effetti di lunga durata”, i cui residui troviamo in oltre metà delle acque superficiali (e nel 28,3% dei punti di campionamento in quantità superiore ai valori limite di legge).

Poi considera non conformi i prodotti biologici che ne presentino tracce nemmeno quantificabili, fino a conclusione dell’indagine ufficiale svolta dall’organismo di controllo. Nel frattempo, il prodotto non può essere commercializzato (poco male se si tratta di grano e ceci, ma quando si tratta di fragole e lattughe?).

6.2) Effetti dissuasori nella conversione all’agricoltura biologica

L’attuale perversione normativa scoraggia la conversione all’agricoltura biologica da parte di nuove aziende.

Chi si arrischia a passare al biologico se il prodotto deve venire bloccato in presenza di contaminazioni ambientali tecnicamente inevitabili?

L’agricoltore biologico è un Superman in grado di evitare quanto la normativa europea qualifica come inevitabile?

6.3) La distanza dal regolamento europeo

Questa perversione fa anche sì che per evitare le complicazioni e i costi della gestione di una sospetta non conformità, con relativo blocco del prodotto sotto indagine, nel commercio emerga la tendenza ad accettare solo prodotti privi di residui.

Più che una semplificazione è una riduzione arbitraria. Da nessuna parte il regolamento UE 848/2018 e i suoi 124 “considerando” che ne contengono la motivazione prevedono che il prodotto biologico debba essere a residuo zero: prevedono che l’operatore ponga in essere misure proporzionate e ragionevoli (e evitare l’inevitabile non è ragionevole) per tener fuori dalle sue produzioni i residui.

L’assenza di residui rilevabili non testimonia di per sé il rispetto del metodo biologico, il cui ele­mento centrale è l’approccio alla qualità orientato al processo.

7) Danni per le aziende italiane

Altro aspetto d’interesse è che, come ovvio, ma anche ribadito dal regolamento UE 848/2018, l’Italia può sì applicare norme nazionali dettagliate di produzione, ma solo se conformi alla normativa europea (e non sembra questo il caso) e senza vietare, limitare o impedire l’immissione sul mercato di prodotti ottenuti al di fuori del suo territorio che siano conformi al regolamento.

Il vincolo del “residuo zero”, quindi, ricadrebbe solo sugli operatori nazionali, un’eventualità su cui la Corte Costituzionale (4) ha eccepito:

“La disparità di trattamento tra imprese nazionali e imprese comunitarie, seppure è irrilevante per il diritto comunitario, non lo è dunque per il diritto costituzionale italiano. Non potendo essere da questo risolta mediante l’assoggettamento delle seconde ai medesimi vincoli che gravano sulle prime, poiché vi osta il principio comunitario di libera circolazione delle merci, la sola alternativa praticabile dal legislatore in assenza di altre ragioni giustificatrici costituzionalmente fondate è l’equiparazione della disciplina della produzione delle imprese nazionali alle discipline degli altri Stati membri nei quali non esistano vincoli alla produzione e alla commercializzazione analoghi a quelli vigenti nel nostro Paese.

In definitiva, in assenza di una regolamentazione uniforme in ambito comunitario, il principio di non discriminazione tra imprese che agiscono sullo stesso mercato in rapporto di concorrenza, opera, nella diversità delle discipline nazionali, come istanza di adeguamento del diritto interno ai principî stabiliti nel trattato agli artt. 30 e seguenti;

opera, quindi, nel senso di impedire che le imprese nazionali siano gravate di oneri, vincoli e divieti che il legislatore non potrebbe imporre alla produzione comunitaria: il che equivale a dire che nel giudizio di eguaglianza affidato a questa Corte non possono essere ignorati gli effetti discriminatori che l’applicazione del diritto comunitario è suscettibile di provocare”.

8) Il supporto del Vade Mecum

Va da sé che non si propone un “liberi tutti”, quanto un set di procedure ragionevoli che non parte dal presupposto che gli imprenditori biologici sono dei malfattori.

Organismi di controllo e autorità devono verificare che non ci sia commistione tra prodotti biologici e non biologici né che si configurino altri tentativi di frode, ma a fronte della presenza di tracce suscettibili di derivare da contaminazioni che le norme europee qualificano come accidentali e involontarie, dovrebbero valutare la ragionevolezza delle misure precauzionali adottate dagli operatori, la loro classe di rischio e lo “storico” della conformità, tenendo a mente le tonnellate di prodotto destinato al macero magari solo perché gli operatori avevano utilizzato fertilizzanti avallati dal ministero.

Operatori, organismi di controllo e di vigilanza possono trovare un valido strumento di supporto nel “Vade Mecum on Official Investigation in Organic Products (Good Implementation Practices for Articles 28 and 29 of Regulation (EU) 2018/848” appena pubblicato e scaricabile gratuitamente. (5)

Il manuale, realizzato con il sostegno del Bundesprogramm Ökologischer Landbau (lo schema del governo federale tedesco per l’agricoltura biologica) con l’approccio collaborativo di 25 tra i massimi esperti europei (tra cui i rappresentanti delle autorità competenti di Danimarca e Baviera, istituti tecnici francesi, tedeschi e svizzeri, imprese, consulenti) si propone di affiancare tutti gli stakeholder nella gestione dell’articolo 28 (Misure precauzionali volte a evitare la presenza di prodotti e sostanze non autorizzati) e 29 (Misure da adottare in caso di presenza di prodotti o sostanze non autorizzati) del regolamento UE 848/2018.

Magari anche l’autorità competente italiana, che continuando a tenere il nostro Paese disallineato dalla normativa europea reca grave pregiudizio al nostro sistema produttivo.

Roberto Pinton

Note

(1) (EFSA Journal 2015; 13(6): 4135, Risks for public health related to the presence of chlorate in food, https://doi.org/10.2903/j.efsa.2015.4135

(2) Brühl, C.A., Engelhard, N., Bakanov, N. et al. “Widespread Contamination of Soils and Vegetation with Current Use Pesticide Residues along Altitudinal Gradients in a European Alpine Valley”, Commun Earth Environ 5, 72 (2024). https://doi.org/10.1038/s43247-024-01220-1

(3) https://www.snpambiente.it/snpa/rapporto-nazionale-pesticidi-nelle-acque-dati-2021/

(4) Sentenza n.443 anno 1997

(5) Verlet & Neuendorff et al. (2024). A Vade Mecum on Official Investigation in Organic Products. Good Implementation Practices for Articles 28 and 29 of Regulation (EU) 2018/848. Anti-Fraud Initiative. https://shorturl.at/gCW4r

Roberto Pinton

Consulente tecnico ed economico per la distribuzione alimentare, si occupa prevalentemente di regolatorio, qualità e certificazione (biologico e produzioni regolamentate). È stato per due mandati membro del comitato esecutivo di IFOAM Organic Europe a Bruxelles.

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