Il coronavirus ci sta insegnando che la competenza, la conoscenza e la specializzazione di ogni operatore in ciascun settore è fondamentale per affrontare una crisi di queste dimensioni e il cambiamento che essa determinerà. Tali competenze risultano però inutili se non vengano condivise, coordinate e gestite da centri di controllo che facciano capo a un’unica cabina di regia.
La globalizzazione (e la ricerca del ricavo a ogni costo) è alla base della diffusione intercontinentale di un’epidemia che 30 anni fa avrebbe a malapena raggiunto le cronache, da una parte all’altra del pianeta. Ed evidenzia i limiti di modelli di business che non tengono conto, ad esempio, di unicità e differenze nelle abitudini di acquisto a livello locale. Alcune riflessioni su Covid-19 e retail alimentare.
Coronavirus, commercio al dettaglio e tecnologia
Il commercio al dettaglio – nell’emergenza coronavirus – sta rivelando limiti e pregi. E ci si trova ora di fronte a un’opportunità per riorganizzarsi e ripartire. La tempesta in corso potrebbe tra l’altro servire a prendere decisioni di politica economica altrimenti dolorose, impopolari e impensabili.
È ormai innegabile l’esigenza di ripensare i modelli di business in modo che tutti – compreso il retail alimentare – integrino tecnologie interoperabili a livello ‘macro’. Una tecnologia che non deve solo servire a fare emergere il sommerso, o ad appesantire le PMI, bensì a offrire la possibilità di accesso ai servizi e ai prodotti da parte di una fetta maggiore della popolazione, non solo in tempi di crisi.
Si parla molto di smart working, ma bisognerebbe ragionare di smart cities, smart stores, smart organizations. Non tutte le attività possono venire gestite in remoto, è evidente. Un pomodoro dovrà venire coltivato e raccolto per poi essere venduto e consegnato. Ma la pianificazione, l’organizzazione e la gestione dovranno diventare smart.
Ecommerce e globalizzazione
L’ecommerce è un sistema tuttora molto inefficiente, dal punto di vista economico e organizzativo. Ma se venisse integrato a livello territoriale e nazionale permetterebbe di realizzare economie di scala e obiettivi di sostenibilità (economica, ambientale e sociale) altrimenti solo teorici. La possibilità di integrare i sistemi informativi – che oggi è possibile e soprattutto strategica – consentirebbe ad esempio di gestire l’inventario di uno specifico bene, in un dato momento, in una zona.
Operatori indipendenti, all’occorrenza, potrebbero diventare parte di uno stesso macro sistema. Il tradeoff di un sistema smart è rappresentato dalla inevitabile riduzione della concorrenza. Il cui limite potrebbe essere rappresentato, ad esempio, dalla domanda teorica delle comunità in relazione al potere di spesa. La quale servirebbe a determinare la capillarità e l’inventario dei punti vendita e magazzini vicini al consumatore.
Dal retail virtuale a quello fisico tuttavia, a ben vedere è proprio il modello basato sulla sovrapproduzione a discapito della qualità a rivelarsi fallace:
– qual è il senso di un numero crescente di punti vendita di una rete retail, se la capacità di spesa e la domanda sono stabili o in calo?
– che possibilità si hanno di vendere a livello globale alimenti la cui produzione si basa su territori circoscritti e non è scalabile (se non a costo di stravolgerla, come è accaduto nel Prosecco-shire)?
– qual è il senso di delocalizzare produzioni in Paesi che non seguono gli stessi protocolli (di sicurezza alimentare, benessere animale e sostenibilità socio-ambientale) vigenti dei Paesi di destino?
L’alternativa possibile
Lo scenario sopra descritto, inevitabilmente dominato da Corporation di rilevanza globale (le uniche finora in grado di sostenere gli investimenti necessari per progetti di questo tipo), ha però un’alternativa. Il coronavirus ci può indurre a riconsiderare l’opportunità di investire su sovranità alimentare e filiere corte, basate su piccole realtà locali.
La carne brasiliana o l’olio di palma asiatico, ad esempio, non hanno più ragione di avere mercato in Italia. Un Paese che si vanta per la ‘qualità’ e l’unicità degli alimenti. E il commercio al dettaglio può, anzi deve tutelare il consumatore solo se la filiera di approvvigionamento è protetta, tracciata e condivisa.
Sistemi di blockchain pubblica, applicati a filiere virtuose radicate sui territori e visitabili anche fisicamente da parte dei consumatori, possono aiutare a stabilire la fiducia che all’ecommerce globalizzato tuttora manca, come si è visto. A condizione di incorporare le fasi primigenie – genetica delle sementi e mangimi inclusi (from seed to fork e from feed to table) indispensabili a garantire e valorizzare l’unicità autentica delle filiere locali.
Supply-chain e sostenibilità
Il coronavirus costringerà a ridisegnare la supply-chain di molte industrie, quella alimentare in primis. Si assisterà inevitabilmente a una rilocalizzazione di molte produzioni (e opportunità). Ed è auspicabile che i produttori di eccellenze gastronomiche non scalabili comprendano che non ha senso l’accesso a piattaforme di ecommerce globalizzato, semplicemente accettando i limiti di produzione dei prodotti artigianali.
L’auspicio è che questa enorme crisi venga affrontata avendo come obiettivo quello della sostenibilità. Non teorica o come strumento di marketing, come è stata gestita nell’era pre-coronavirus.
Multinazionali che annunciavano la nomina di Sustainability Officers senza attribuire loro alcun potere di decisione sulle strategie di filiera. O decantavano l’impegno a ridurre le emissioni CO2, salvo trasferire gli oneri ad aziende o Paesi che non rispettano gli stessi protocolli o le mission dichiarate nelle campagne pubblicitarie. Ovvero acquistando Regulatory Credits.
Ristrutturare le supply-chain è l’inevitabile conseguenza – a livello politico ed economico – di una presa d’atto. L’epidemia, nel colpire alcuni dei Paesi più ricchi – ha dimostrando l’inadeguatezza di organizzazioni, piani di investimento e disinvestimento nazionali, modelli di business.
Triple Bottom Line (TBL)
Un approccio sostenibile di ristrutturazione dei modelli di business può consentire di raggiungere obiettivi prima impensabili. Il modello Triple Bottom Line (TBL) – elaborato da più di un quarto di secolo ma raramente applicato con serietà (1) – propone di orientare le strategie e misurare le performance d’impresa dedicando pari attenzione a tre obiettivi. Profit, People, Planet. Vale a dire, nel retail:
- economico (P&L, profits and losses). Le imprese devono retribuire l’investimento e i soggetti che ne consentono l’attività. Ma le aziende vengono tenute in vita dalla domanda e la capacità di spesa del mercato. Vale a dire che, se le aziende non sono sane, le comunità sono malate. Non hanno più senso crescite scriteriate e artificiali di reti retail. Le aziende e le loro attività devono essere sostenibili sotto entrambi i profili economico e finanziario. Il coronavirus ci insegna che il commercio al dettaglio in generale (e quello alimentare in particolare) è strategico, ma deve evolversi per sopravvivere e mantenere rilievo,
- sociale. L’apertura indiscriminata di punti vendita privi di un’effettiva sostenibilità economica non può che condurre nel medio termine a tensioni sociali e disoccupazione. Una comunità sana ha invece bisogno di essere sostenibile anche sul piano sociale. E la sostenibilità sociale si raggiunge con un lavoro che garantisca un reddito dignitoso in grado di foraggiare famiglia e comunità, una tassazione che contribuisca a un sistema sanitario pubblico efficiente e un’istruzione che formi le risorse di domani,
- ambientale. L’obiettivo di organizzazioni lean dovrebbe essere produrre ciò che è necessario. Le sovrapproduzioni generano sprechi e non sono sostenibili. Covid-19, nel ridurre il valore delle aziende quotate in borsa, sta di fatto offrendo un alibi a chi non poteva più crescere. Stimolare una crescita artificiale, ritornando a produzioni superiori alla domanda, non è la soluzione. È auspicabile piuttosto un cambio di marcia, sulla base di obiettivi di sostenibilità reale.
Ecommerce, sostenibilità ed efficienza
Il costo ambientale dell’ecommerce globalizzato è rappresentato dall’inquinamento che deriva da spedizioni su lunghe distanze, traffico, smaltimento degli imballi, resi, distruzione di prodotti obsoleti o scaduti. Non avrebbe più senso utilizzare la tecnologia ecommerce per valorizzare le attività e gli inventari locali, riducendo spedizioni internazionali o fuori zona di beni che sono invece già presenti nei mercati di consumo?
‘Le gravi catastrofi naturali reclamano un cambio di mentalità che obbliga ad abbandonare la logica del puro consumismo e a promuovere il rispetto della creazione.’ (Albert Einstein)
L’efficientamento delle organizzazioni retail è una delle grandi opportunità che questa tragica esperienza ora ci offre. Non per tornare a distruggere comunità e ambiente, una volta trovata la soluzione a questa pandemia. Ma per accettare che la crescita a tutti i costi è una delle cause all’origine del coronavirus. E un modello retail che risponda a esigenze economiche, sociali e ambientali oggi è possibile. Condividendo le tecnologie e le informazioni e mettendole a disposizione dei consumatori e delle aziende.
Fabio Ravera e Dario Dongo
Note
(1) Il modello della Triple Bottom Line (TBL) venne elaborata in UK nel 1994 da John Elkington, celebre consulente di gestione e guru della sostenibilità. Con l’idea che un’impresa potesse venire gestita in un modo da realizzare profitto ma anche migliorare la vita delle persone e del pianeta.
I concetti di environmental excellence (1984) e green consumer (1988) vennero a loro volta ideati proprio da John Elkington. Il cui libro The Green Consumer Guide, venduto in oltre 1 milione di copie, ha dato un impulso significativo alla richiesta di sostenibilità ambientale, da parte delle comunità più sensibili di consumatori nei confronti delle Corporation.
La Triple Bottom Line rappresenta di fatto una visione econometrica dei concetti a base della SustainAbility (Brundtland Report, UNWCED, 1987). La sua applicazione è stata tuttavia declinata, nei decenni a seguire, in termini di Corporate Social Responsibility (CSR). Un leit motiv che si è peraltro tradotto nel macro fenomeno del greenwashing, tuttora in auge anche nel settore retail come si è visto. Ed è perciò che già ai tempi di Expo 2015 chi scrive (Dongo), sulla scia di Philip Kotler, ha proposto di introdurre il nuovo paradigma di CSV (Contributing to Social Values)