Ripristinare l’obbligo di indicare la sede dello stabilimento sui prodotti alimentari Made in Italy è una priorità assoluta per le nostre filiere. E il governo italiano, dopo oltre due anni di esitazioni, aveva dato finalmente seguito alla petizione da noi sostenuta a tal uopo.
La Commissione europea, a seguito della notifica dello schema di decreto italiano, aveva espresso alcune esitazioni. Estendendo fino al 2 ottobre 2017 il c.d. standstill period. (1) Great Italian Food Trade ha intanto richiesto copia delle opinioni espresse da altri Stati membri, scontrandosi tuttavia col ‘muro di gomma’ dei segreti di Bruxelles.
Il ministro Maurizio Martina ha però deciso di interrompere il corso ordinario della procedura di notifica. Negli ultimi giorni infatti il governo italiano ha fatto marcia indietro, ritirando lo schema di provvedimento dal sistema TRIS, (2) ove vengono registrati i progetti normativi nazionali recanti norme tecniche sulla produzione e commercializzazione delle merci. Oltreché sulla fornitura di taluni servizi.
Il decreto sull’indicazione obbligatoria della sede dello stabilimento è stato così sottratto alle procedure necessarie alla sua approvazione da parte della Commissione europea. Sebbene tale notizia sia misteriosamente sfuggita (!) al pur vivace ufficio stampa del ministero delle Politiche Agricole.
A quanto pare, la manovra sarebbe prodromica a una nuova notifica. Non più inquadrata nel sistema TRIS bensì in quello previsto dal regolamento UE 1169/11, sull’informazione al consumatore relativa ai prodotti alimentari. (3) Un’inutile perdita di tempo, o un autogol programmato?
L’idea del ministro Martina, secondo voci di corridoio, sarebbe quella di restringere l’obbligo di citare la sede dello stabilimento in etichetta ai soli prodotti alimentari trasformati. Il che appare di per sé ovvio agli addetti di settore, poiché il campo di applicazione del decreto si limita ai prodotti preimballati, o preconfezionati che dir si voglia. (4)
Tale ipotesi risulta peraltro problematica, poiché espone il decreto a un’analisi settoriale, caso per caso, inevitabilmente frammentata. Si indebolisce perciò la ragione di fondo del progetto normativo, il quale – a prescindere dalle categorie di alimenti considerati – si giustifica sulla base di esigenze chiare e condivisibili, come:
– ottimizzare la gestione di eventuali crisi di sicurezza alimentare, facilitando la rintracciabilità dei prodotti grazie alla disponibilità in etichetta della sede dello stabilimento di produzione,
– promuovere scelte informate di acquisto da parte dei consumatori, i quali hanno già espresso la legittima aspettativa di conoscere il luogo ove l’alimento è stato trasformato,
– garantire la qualità dei prodotti effettivamente realizzati in Italia, permettendo ai consumatori globali di distinguere il vero Made in Italy rispetto alle sue innumerevoli imitazioni (c.d. Italian sounding).
L’impressione è che sia proprio il governo italiano a boicottare il proprio provvedimento. Ancora una volta, come nel caso dei decreti sull’origine di pasta e riso. Intralciare le procedure per fare in modo che sia la Commissione europea a fermare tutto.
Il gioco del governo a ben vedere è semplice:
A) salvaguarda gli interessi dei colossi internazionali. (5) Big Food è ovviamente contraria alla trasparenza in etichetta, poiché macina profitti sull’Italian sounding e ha interesse a delocalizzare (6) le produzioni,
B) continua a illudere gli elettori (consumatori, agricoltori e imprenditori che investono sul Made in Italy alimentare), facendo loro credere di portare avanti la ‘battaglia’ per salvaguardare le produzioni italiane in Europa e nel mondo, riaffermando l’obbligo della sede dello stabilimento in etichetta,
C) si prepara a scaricare su Bruxelles le colpe di avere contrastato le istanze dei cittadini italiani. In vista delle prossime elezioni, un po’ di populismo euroscettico sempre utile a sottrarre voti alle opposizioni.
Linearità politica e trasparenza, AAA cercasi.
Dario Dongo
Note
(1) Vale a dire il periodo transitorio entro il quale gli altri Stati membri e la Commissione stessa possono esprimere pareri motivati e commenti sul progetto normativo nazionale, in vista di chiarimenti da parte del Paese che ha provveduto alla notifica. Il quale ultimo nel frattanto – e in attesa del via libera da Bruxelles – deve astenersi dall’applicare la normativa sotto esame
(2) Technical Regulations Information System Database, direttiva 2015/1535/UE. Cfr. https://ec.europa.eu/growth/single-market/barriers-to-trade/tris_en
(3) Reg. UE 1169/11, articolo 39
(4) In linea con lo stesso regolamento UE 1169/11, che invero definisce disposizioni unitarie sui soli alimenti preimballati. Rimettendo alla legislazione nazionale concorrente la disciplina d’informazione sui prodotti venduti sfusi o preimballati. Sia pure nel rispetto dei regolamenti europei di settore, ad esempio nell’ortofrutta (cfr. http://www.foodagriculturerequirements.com/category/notizie/ortofrutta-origine-e-altre-informazioni-obbligatorie)
(5) I governi Renziloni o Gentilrenzi hanno già dato buona prova di privilegiare gli interessi di Big Food rispetto a quelli generali. Basti pensare ai casi di soda tax e ai baciamano ai palmocrati, da parte del v.ministro all’Agricoltura Andrea Olivero e del ministro per l’Ambiente Gian Luca Galletti
(6) Vedasi alcuni esempi di delocalizzazione, su http://www.ilfattoalimentare.it/sede-dello-stabilimento-etichetta.html
Dario Dongo, avvocato e giornalista, PhD in diritto alimentare internazionale, fondatore di WIISE (FARE - GIFT – Food Times) ed Égalité.