Alcopops. Dal Bellini al Bacardi Breezer e la Smirnoff Ice, per citare i più noti, ascesa e declino di un segmento di mercato che tuttora presenta diffuse irregolarità in etichetta. L’ABC a seguire.
A) Alcopop. Un segmento a geometria variabile
Il termine ‘alcopop’, dalla crasi di ‘alcol’ e ‘soda pop’, è stato introdotto da alcune associazioni di consumatori, come The Center for Science in The Public Interest (CSPI) e Alcohol Concern (USA). Le quali per prime si sono battute, a inizio anni 2000, affinché queste bevande venissero sottoposta a rigorose restrizioni di vendita e marketing. La categoria si presta ad accogliere una discreta varietà di bevande alcoliche aromatizzate (flavored alcoholic beverages, FAB). In particolare:
– bevande aromatizzate con aggiunta di alcol distillato o bevande spiritose come rum, vodka, tequila (es. Bacardi Breezer, Smirnoff Ice, etc.),
– cocktail pronti da bere, anche a partire da vino (ready-to-drink beverage, RTD). A partire dallo storico Campari Soda, fino allo Spritz, il cui boom planetario nella preparazione da bar e domestica ha accompagnato il successo del prosecco,
– bevande a base di malto e/o birra (malt alcoholic beverages), con aggiunta di acqua, zucchero e aromi. Come il Radler o panaché, mix di birra e gazzosa o limonata, e vari altri mai sbarcati in Italia.
La produzione è simile a quella dei soft drink, trattandosi di miscele a base di acqua con aggiunta di zucchero, aromi, anidride carbonica, additivi alimentari e succo di frutta a seconda dei casi. A cui si aggiunge la matrice etilica, che apporta alle bevande un tenore alcolico variabile, in genere non superiore al 10% in volume.
La storia di alcuni prodotti – come Radler e Campari Soda – è secolare, o quasi. Ma il lancio sul mercato globale degli alcopops più diffusi risale gli anni ’90 e ha raggiunto il culmine nei primi anni 2000. Con il lancio di Bacardi Breezer, Smirnoff Ice e Hooper’s Hooch. I volumi delle vendite sono raddoppiati, anno su anno, fino a declinare progressivamente.
B) Battaglie e restrizioni alla vendita
Lo sbarco sul mass market delle bevande dolci e gassate con un’aggiunta di alcol ‘moderata’ (a raffronto con i superalcolici impiegati come ingredienti) ha subito raccolto feroci critiche da parte delle associazioni dei consumatori. Le quali hanno inveito – con il probabile sostegno, dietro le quinte, dell’industria birraria (altrettanto concentrate, bensì escluse dal fenomeno, fino al lancio delle Radler) – nei confronti di prodotti rivolti soprattutto agli adolescenti.
La gradazione alcolica relativamente bassa, unita alle bollicine e al gusto morbido, è infatti sicuramente valsa a introdurre i più giovani al consumo di alcol. Con la duplice aggravante del richiamo ai sapori familiari dei soft drink e di politiche di marketing indubbiamente rivolti al target giovanile. I bevitori c.d. entry-level, in particolare le ragazze adolescenti, anche minorenni al di sotto dell’età ‘legale’ per il consumo di alcolici, hanno infatti contribuito in misura significativa all’exploit delle bevande imbottigliate pre-mix.
‘Pensiamo che la creazione di alcopops sia stato un tentativo piuttosto cinico di reclutare giovani bevitori che non amano naturalmente il gusto dell’alcool tentandoli con sapori che hanno più probabilità di essere trovati nelle bevande analcoliche. Il marketing e il branding di queste bevande in uno stile che piaceva ai giovani è stata la chiave del successo.’ (Emily Robinson, vice direttore generale di Alcohol Concern, UK. V. Nota 1).
Le reazioni non sono mancate. Diverse catene della GDO – come Coop Food e Iceland in Inghilterra, da sempre attente ai temi sociali (anche sull’olio di palma, Iceland ad esempio) – hanno preso subito posizione, ritirando tali bevande dagli scaffali. E molti governi (es. UK, Danimarca, Germania, Canada, Australia) hanno introdotto misure fiscali dissuasive, con aumenti delle accise fino al 70% in Oceania.
I grandi produttori sono corsi ai ripari. Nel 1996, agli albori della crisi reputazionale in una fase di crescita a doppia cifra, hanno introdotto il primo codice internazionale di buone prassi di marketing. Ad opera del gruppo Portman, finanziato appunto dall’industria delle bevande alcoliche. Ma il ciclo di vita commerciale dei pre-mix, di lì a pochi anni, ha comunque intrapreso una parabola discendente.
A posteriori, si è anzi osservato come forse le preoccupazioni degli anni ’90, benché legittime e condivisibili, fossero sproporzionate rispetto ai dati reali sul consumo di alcol da parte di giovani e giovanissimi. Poiché il pericolo alcol è reale e attuale – anche in Italia, come si è visto – ma sembra piuttosto da attribuire ad altre categorie di prodotti.
Paradossalmente, anche i giovani dediti alla folle pratica del binge-drinking tendono a favorire alcolici più forti ed economici, in rapporto alle quantità d’alcol. Chi ambisca ad ubriacarsi, insomma, compra una bottiglia di vodka a basso prezzo anziché una cassa di limonata con un decimo del tenore alcolico.
Le vendite sono comunque calate drasticamente, negli ultimi 15 anni, anche a casa nostra. (2)
C) Comunicazione in etichetta
Le etichette degli alcopop in vendita sul mercato italiano spesso presentano gravi non-conformità. Anche su bottiglie a marchi celebri. Stupisce quindi la disattenzione dei mastodontici uffici legali dei colossi del beverage. Ma ancor più, per evidenza statistica, quella delle centinaia (ICQRF) e migliaia (Ministero Salute, ASL) di funzionari pubblici deputati ai controlli sull’applicazione del ‘Food Information Regulation’ (FIR) e del ‘Nutrition & Health Regulation’ (NHC). (3)
La denominazione dell’alimento, vale la pena ricordare, è la prima notizia obbligatoria da riportare in etichetta. Applicando regole pressoché invariate da oltre 40 anni (!)
‘La denominazione di vendita di un prodotto alimentare è la denominazione prevista dalle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative ad esso applicabili o, in mancanza di essa, il nome consacrato dall’uso nello Stato membro nel quale il prodotto alimentare è venduto al consumatore finale, o una descrizione di esso e, se necessario, della sua utilizzazione, sufficientemente precisa per consentire all’acquirente di conoscerne la natura effettiva e di distinguerlo dai prodotti con i quali potrebbe essere confuso’ (direttiva 1979/112/CEE, articolo 5. V. nota 4).
Gli alcopop sono privi, in Europa, sia di una denominazione legale che di un nome usuale. A differenza di altri Paesi, ove tali bevande sono designate per consuetudine con vari nomi (Coolers in Canada, Spirit Coolers in Sud Africa, Wine Coolers in altri mercati). Bisogna perciò designare tali prodotti facendo ricorso a una denominazione descrittiva, quale ‘bevanda alcolica’. Eventualmente seguita dal richiamo a un ingrediente caratteristico, in tal caso riferendo anche la sua quantità (secondo la regola del QUID, Quantitative Ingredient Declaration).
La denominazione ‘bevanda a basso contenuto alcolico’ – come simili altre, che si trovano in etichette e pubblicità di varie bottiglie di alcopops, è invece del tutto fuorilegge. Integrando una duplice violazione, sia delle norme generali (FIR), sia del regolamento su Nutrition & Health Claims. Tale dichiarazione infatti non è conforme ai criteri stabiliti per designare i prodotti alimentari e si qualifica al contempo come claim non ammesso. In violazione di regole che hanno quasi compiuto 13 anni (!).
‘Le bevande contenenti più dell’1,2% in volume di alcol non possono recare indicazioni sulla salute.
Per quanto riguarda le indicazioni nutrizionali, sono ammesse soltanto quelle riguardanti un basso tenore alcolico o la riduzione nel contenuto alcolico oppure la riduzione nel contenuto energetico in bevande con un volume alcolico superiore all’1,2 %.
In mancanza di norme comunitarie specifiche sulle indicazioni nutrizionali riguardanti un basso tenore alcolico o la riduzione o l’assenza di contenuto alcolico o energetico in bevande che di norma contengono alcol, possono essere applicate norme nazionali pertinenti ai sensi delle disposizioni del trattato.’ (reg. CE 1924/06, articolo 4, comma 3 e 4)
Etichette trasparenti, legalità, a quando?
Dario Dongo
Note
(1) Finlo Rohrer & Tom de Castella. The quiet death of the alcopop. BBC News Magazine, 31.7.13, https://www.bbc.com/news/magazine-23502892
(2) Claudio Troiani. Ready to drink, una categoria rimasta una nicchia. Imbottigliamento, 26.3.14 http://www.imbottigliamento.it/2014/03/26/ready-to-drink-una-categoria-rimasta-una-nicchia/
(3) V. reg. UE 1169/11, Food Information Regulation, e relative sanzioni in d.lgs. 231/17; reg. CE 1924/06 e successive modifiche, Nutrition & Health Claims, con sanzioni in d.lgs. 27/17. Si veda anche l’ebook gratuito ‘1169 Pene. Reg. UE 1169/11, notizie sui cibi, controlli e sanzioni’, su https://www.greatitalianfoodtrade.it/libri/1169-pene-e-book-gratuito-su-delitti-e-sanzioni-nel-food
(4) La direttiva 1979/112/CEE, del 18.12.78, ‘relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri concernenti l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari destinati al consumatore finale, nonché la relativa pubblicità’, è stata abrogata dalla successiva dir. 2000/13/CE. La quale a sua volta è poi stata abrogata dal reg. UE 1169/11. Le previsioni sulla denominazione dell’alimento di cui all’articolo 5 della direttiva 1979/112/CEE sono peraltro rimaste invariate nel corso di 4 decenni, fino a venire trasposte nell’attuale articolo 17 del reg. UE 1169/11

Dario Dongo, avvocato e giornalista, PhD in diritto alimentare internazionale, fondatore di WIISE (FARE - GIFT – Food Times) ed Égalité.