La certificazione di ‘sostenibilità’ delle materie prime a rischio deforestazione e abusi su popolazioni indigene e contadine è sempre attendibile? Al quesito risponde il rapporto di Greenpeace che analizza 9 schemi di certificazione attivi in 5 settori. Olio di palma, soia, caffè, cacao e prodotti in legno.
Certificazione di sostenibilità, gli obiettivi
Salvaguardare le foreste (e le torbiere) e tutelare i diritti delle popolazioni dalla rapina delle terre (land grabbing) per fare spazio a monocolture intensive è un obiettivo dichiarato sin dagli anni ‘80 del secolo scorso dalle organizzazioni governative e non. Il loro fallimento e la crescente attenzione dei cittadini-consumatori verso tali temi ha così favorito la diffusione di certificazioni volontarie.
Il rapporto Greenpeace esamina i 9 schemi di certificazione di sostenibilità sempre più diffusi sulle etichette dei prodotti controversi sotto il profilo socio-ambientale. RSPO per l’olio di palma, FSC per i prodotti in legno, Rainforest Alliance/UTZ e Fairtrade per colture come cacao, caffè e tè, alcuni altri schemi diffusi ma meno celebri.
Indicatori di attendibilità
L’analisi dell’attendibilità di ogni certificazione condotta da Greenpeace si basa sull’esame di alcuni indicatori obiettivi come la governance, vale a dire chi decide e come. In alcuni schemi, come FSC, un operatore può venire certificato senza essere membro dell’organizzazione. In altri, come RSPO, l’adesione è un prerequisito per la certificazione.
È fondamentale il FPIC (Free, Prior and Informed Consent), vale a dire il consenso preventivo, informato e libero da condizionamenti delle popolazioni autoctone, sulle operazioni che riguardano le loro terre, domini ancestrali, eventuali ‘ricollocamenti’ e attività lavorative. Ma esso non è rispettato nelle filiere di palma e soia in particolare.
9 schemi di certificazione di sostenibilità sotto esame
La valutazione considera poi i requisiti degli schemi di certificazione e il livello di tracciabilità delle derrate. Indispensabile a garantire l’identità effettiva delle merci certificate – dai campi agli scaffali – e la loro segregazione rispetto a quelle non altrettanto ‘garantite’. Si considera altresì il livello di trasparenza con cui le organizzazioni divulgano – o nascondono, anche per editto – i dati sulle colture e le iniziative nei confronti di chi trasgredisce le regole.
L’esito complessivo delle valutazioni di Greenpeace sugli schemi privati di certificazione di sostenibilità è negativo. Gli schemi risultano variamente inefficaci, con la sola eccezione del FairTrade che pure denota alcune aree di miglioramento. Del resto, all’impetuoso aumento dei prodotti certificati negli ultimi due decenni è corrisposta – nella migliore delle ipotesi, per le colture diverse da palma e soia OGM – una riduzione solo modesta di ecocidi e violazioni dei diritti umani fondamentali. I 9 schemi analizzati da Greenpeace, in breve a seguire.
1) ICSS, ‘biocarburanti’
ISCC (International Sustainability and Carbon Certification) è la certificazione di sostenibilità dei ‘biocarburanti’. A causa delle debolezze nella governance (controllata dall’industria), negli standard, nella trasparenza, nell’audit e nell’implementazione, Greenpeace boccia questo sistema, considerato utile solo per ammantare di green le materie prime impiegate per i ‘biocarburanti’, olio di palma in primis.
Questo tipo di ‘bioenergia’, inoltre, determina un aumento della domanda di alcune colture tipicamente destinate all’uso alimentare, es. mais per bioetanolo e palma per ‘biodiesel’, provocando una crescente pressione sulla terra e sul clima.
2) Fairtrade, cacao e caffè
La condivisione del potere è relativamente ben bilanciata in Fairtrade. Il sistema è giudicato uno dei migliori programmi di commercio equo e solidale in funzione, l’unico che garantisce un prezzo minimo per gli agricoltori, più una somma extra da investire in progetti commerciali o comunitari.
Tuttavia, rimangono preoccupazioni circa l’effettiva efficacia del programma, con una revisione della letteratura che mostra risultati contrastanti per quanto riguarda l’impatto sui mezzi di sussistenza. Si indica altresì la necessità di migliorare gli standard lavorativi nelle piccole aziende agricole e la riduzione del lavoro minorile.
3) Rainforest Alliance/UTZ, agricoltura ‘sostenibile’
Rainforest Alliance, dopo la fusione nel 2018 con UTZ, ha pubblicato un nuovo schema di certificazione per l’agricoltura ‘sostenibile’ – che non ha nulla a che vedere, si noti bene, con il sistema biologico – con audit obbligatori a metà 2021. L’esame di Greenpeace dei due schemi ora riuniti segnala alcune criticità. La governance anzitutto è meno equilibrata di quella di Fairtrade, poiché influenzata dall’industria.
La tracciabilità è considerata problematica. L’attuale sistema lascia aperto il rischio di intrusione nei prodotti certificati di partite estranee. Nel 2019 Rainforest Alliance ha ammesso di avere identificato gravi non conformità tra i titolari di certificati in Africa occidentale con riguardo a tracciabilità, deforestazione e agricoltura in aree protette. Ha di conseguenza tolto la certificazione ad alcune aziende e sospeso diversi certificatori. Sebbene sia previsto il FPIC, una revisione indipendente dell’efficacia degli schemi ha dimostrato scarsa efficacia nel sostegno economico dei coltivatori di cacao e nel contrasto al lavoro minorile.
4) Olio di palma, RSPO
RSPO – Roundtable on Sustainable Palm Oil, la ‘tavola rotonda sull’olio di palma sostenibile’ – dichiara obiettivi ambientali e sociali relativamente forti, sulla carta, e strutture di governance multi-stakeholder. I palmocrati che hanno ideato e di fatto controllano l’organizzazione violano però spesso le norme dichiarate senza venire estromessi dalla certificazione. Un fallimento sistematico, come attestano gli studiosi e le ONG, a danno di foreste e comunità indigene.
Altra grande debolezza è la tracciabilità, con elevato rischio che l’olio di palma non tracciato e non certificato si mescoli al prodotto certificato. Nel complesso, spiega Greenpeace, l’olio certificato RSPO non può essere garantito come esente da deforestazione o abusi dei diritti umani. Una conclusione ampiamente anticipata anche dal nostro sito GIFT (Great Italian Food Trade).
ISPO/MSPO, l’olio di palma dei governi
ISPO e MSPO (Indonesian Sustainable Palm Oil, Malaysian Sustainable Palm Oil) sono schemi creati dai governi indonesiano e malese insieme all’industria dell’olio di palma. Si basano su leggi e regolamenti esistenti, con un limitato coinvolgimento della società civile e delle ONG.
I protocolli governativi – teoricamente obbligatori – mancano però di requisiti fondamentali per arrestare le deforestazioni ed espansione nelle torbiere, il rispetto dei diritti delle comunità indigene e locali, di contadini e lavoratori, il divieto dei roghi.
6) RTRS, la tavola rotonda sulla soia
Anche la soia, altra coltura intensiva legata a deforestazione e violazioni sociali, ha la sua tavola rotonda, la Round Table on Responsible Soy (RTRS).
La certificazione RTRS è spesso considerata dall’industria come una delle migliori nel suo genere. Tuttavia, annota Greenpeace, i sistemi di tracciabilità adottati non forniscono garanzie adeguate.
Il sistema dei crediti accordati agli agricoltori per produrre soia sostenibile è fallace. Il premio è troppo basso per scoraggiare il più semplice ed economico disboscamento. Lo schema consente inoltre agli operatori di vendere soia RTRS o crediti dalle loro aziende agricole certificate, mentre continuano a disboscare in altre loro aziende agricole non certificate.
6) ProTerra, agricoltura sostenibile
ProTerra è uno schema basato sui criteri di Basilea per la soia responsabile (creato da Coop Svizzera e WWF). Ha criteri di sostenibilità più severi di RTRS, vieta gli OGM e prevede una stretta tracciabilità lungo l’intera filiera.
La debolezza di questo standard è la facoltà accordata al produttore di certificare solo alcune aziende, lasciando quindi che lo stesso produttore continui a deforestare e violare i diritti delle comunità mediante le altre sue aziende. Critico anche il giudizio sulla trasparenza, i dati dei flussi, gli audit e i reclami inaccessibili.
7) FEFAC, lo standard dei mangimi
FEFAC (European Feed Manufactures’ Federation) rappresenta le associazioni europee di mangimi in 27 paesi dell’UE. Le sue linee guida sull’approvvigionamento di soia vengono bocciate da Greenpeace, perché si limitano a prevedere il rispetto della legislazione in materia di protezione delle foreste e degli ecosistemi.
In molti Paesi, Brasile in primis, la conformità legale non ha alcun valore rispetto alle deforestazioni e la perdita di biodiversità. Basti pensare ai Paesi Mercosur, dall’Amazzonia al Gran Chaco e il Cerrado, un’area di enorme valore ecologico che ha già perso metà della sua vegetazione naturale e rimane minacciata.
Uno studio di Profundo su 17 standard di certificazione approvati secondo le linee guida FEFAC sulla soia ha mostrato che 10 di essi vietano solo la deforestazione illegale. Solo sette degli standard escludono la deforestazione e la conversione di tutta la vegetazione nativa dopo il 2008 o il 2009.
8) FSC, prodotti in legno
La certificazione FSC (Forest Stewardship Council) ha una serie di punti di forza, tra cui la sua struttura di governance multi-stakeholder e forti standard di gestione forestale che includono il rispetto dei diritti delle popolazioni indigene e dei lavoratori e il divieto agli OGM.
È il sistema di certificazione forestale più credibile ed efficace, adottato come modello per la certificazione in generale. Tuttavia, anche l’FSC è migliorabile. Greenpeace cita una scarsa trasparenza testimoniata dall’inaccessibilità al pubblico delle mappe delle aree certificate e conservate, l’incapacità di dissociarsi dalle aziende associate alla deforestazione e agli abusi dei diritti umani e l’insufficiente tracciabilità dei prodotti. È poi dubbia l’attività di audit, a causa del conflitto di interessi causato dalle aziende che contrattano direttamente con gli enti di certificazione.
8) PEFC, la certificazione forestale di governi e industria
Il PEFC (Programme for the Endorsement of Forest Certification) si descrive come ‘un’alleanza globale di sistemi nazionali di certificazione forestale’ ed è dominato dai governi e dagli interessi economici. Le strutture di governance non hanno una rappresentanza completa ed equilibrata degli interessi economici, ambientali, sociali e indigeni. È considerato uno schema di certificazione debole.
Alcuni importanti schemi nazionali approvati dal PEFC sono addirittura al di sotto delle aspettative internazionali del PEFC stesso. Per esempio, per il Nord America (Canada incluso), la Sustainable Forestry Initiative (SFI) non ha proibizioni significative contro la conversione delle foreste, non richiede il consenso informato (FPIC) per le operazioni che riguardano le terre e i diritti delle popolazioni indigene (gli indiani d’America), né protegge le specie rare e in pericolo.
Urge riforma del sistema di certificazione di sostenibilità
L’appello di Greenpeace a esito di questa analisi è rivolto a tutte le organizzazioni citate e mira a ottenere la definizione di alcuni requisiti fondamentali.
1) Includere sempre la partecipazione preventiva, informata e libera da condizionamenti dei rappresentanti degli interessi sociali e ambientali, le popolazioni indigene anzitutto. Stabilire con fermezza il divieto di deforestazione e degrado ambientale, con obbligo di ripristino delle aree danneggiate (negli ultimi anni) e di risarcimento dei danni sociali.
2) Prescrivere la tracciabilità completa e ininterrotta per i prodotti certificati, dall’azienda agricola al consumatore finale. Con rapporti trasparenti sulle transazioni e dei volumi trattati, in ogni fase della filiera. Le mappe delle aree certificate devono venire pubblicate, gli schemi di certificazione estesi a tutte le operazioni di ogni impresa facente capo a ciascun gruppo aziendale, per proprietà e/o partecipazioni ma anche per gestione e/o altre forme di controllo.
3) Introdurre una struttura che funga da ‘firewall’, muro separatore, tra le due parti (operatori certificati e soggetto certificatori), per impedire il pagamento diretto del servizio e selezionare in modo imparziale gli organismi di controllo più qualificati per effettuare le valutazioni, da sottoporre a loro volta a valutazioni e audit.
4) Prevedere regole stringenti e ad applicazione immediata, compresa la sanzione o l’espulsione, nei confronti dei certificatori e delle imprese certificate che violino gli standard.
Conclusioni provvisorie
Il greenwashing – più o meno marcato, nei 9 schemi di certificazione di sostenibilità esaminate, con le sole eccezioni di Fairtrade e in parte di FSC – sembra essere il tratto dominante di questi sistemi di ‘norme’ che mantengono natura privatistica. Ed è del tutto inammissibile la questione dello sfruttamento minorile, più volte denunciato sulle filiere dell’olio di palma, cacao e nocciole.
È urgente definire precise responsabilità legali – anche a valle delle filiere, fino ai distributori dei prodotti finiti nei Paesi si destino – come in parte proposto dal Parlamento europeo nella risoluzione 20.10.20 sulle deforestazioni. (2) Solo in questo modo si potrà garantire il rispetto delle linee guida FAO sulla gestione responsabile delle terre (2012) e di quelle su investimenti responsabili in agricoltura (2014). (3)
‘Non esistono grandi Scoperte né reale Progresso finché sulla terra esiste un bambino infelice.’ (Albert Einstein)
Marta Strinati e Dario Dongo
Note
(1) Greenpeace (2021). ‘Destruction: Certified’. https://www.greenpeace.org/international/publication/46812/destruction-certified/
Le repliche dei gestori degli schemi esaminati su https://www.greenpeace.org/static/planet4-international-stateless/2021/04/7cf1db30-annex_responses-from-schemes-on-draft.pdf
(2) Dario Dongo. Deforestazioni e import di commodities insostenibili. Consultazione pubblica sulla strategia UE. GIFT (Great Italian Food Trade). 4.4.21, https://www.greatitalianfoodtrade.it/progresso/deforestazioni-e-import-di-commodities-insostenibili-consultazione-pubblica-sulla-strategia-ue
(3) Dario Dongo. FAO, la Cina al comando. GIFT (Great Italian Food Trade). 27.6.19, https://www.greatitalianfoodtrade.it/progresso/fao-la-cina-al-comando