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OGM, tra proclama e realtà, il paradosso italiano

Assistiamo spesso a raccolte di firme contro gli OGM (Organismi Geneticamente Modificati) in Italia. Un tema di rinnovata attualità, a fronte della recente sottoscrizione dell’accordo CETA tra Unione Europea e Canada. Oltreché della recente acquisizione di Monsanto da parte del gruppo Bayer, basato in Germania. Ma al di là dei proclama, qual è la realtà degli Ogm in Italia?

L’Italia è il primo produttore europeo di soia, rigorosamente non-Ogm, in quantità variabile tra 700 mila e 1 milione di tonnellate. La soia italiana viene in parte utilizzata per produrre farine, presso tre piccoli impianti localizzati al Nord italia (Italgreenoil, Cerealdocks, Oleificio San Giorgio), altrimenti destinata alla tostatura. Ma la farina di soia “Made in Italy” viene in prevalenza esportata verso Germania, Austria, Croazia e Ungheria, per soddisfare la richiesta di farine non-OGM.

La soia Ogm viene invece spremuta in Italia in due grandi impianti, a Venezia (Cereadocks SpA) e a Ravenna (Bunge SpA, già Cereol Italia – Eridania SpA, prima Ferruzzi). In quantità considerevoli (circa 800.000 tonnellate di seme, di cui 150.000 sono impiegate per la tostatura e l’utilizzo tal quale), cui si aggiungono quelle della soia – sempre Ogm – che proviene dagli importatori (tra i quali primeggia Cofco, di proprietà cinese), i quali apportano tra gli 1,2 e gli 1,5 milioni di tonnellate di farine da Argentina, Brasile e Stati Uniti.

Le coltivazioni OGM sono vietate in Italia, come in diversi altri Paesi europei, ma non è invece vietato l’uso di materie prime OGM per la produzione di mangimi. E la principale fonte di proteine per gli animali da allevamento è proprio la farina di soia, che può raggiungere una quota proteica fino al 48%, oltre ad avere un profilo di aminoacidi indispensabile per l’accrescimento dell’animale. Le possibilità per offrire in mercato farina di soia sono dunque due, spremere seme di soia italiana non-Ogm (così ricavando olio, per vari utilizzi anche alimentari, e farine) o importare direttamente le farine Ogm.

L’Italia è perciò al contempo importatore di soia (Ogm) ed esportatore di soia (non-Ogm). Di fatto gli operatori tedeschi e austriaci – come pure i croati e gli ungheresi – possono permettersi di acquistare mangimi di costo ben superiore (considerati pure i costi di trasporto), poiché sono in grado di valorizzare i prodotti alimentari di origine animale che derivano da filiere tracciate come non-OGM, di provenienza italiana. Viceversa le filiere dei prodotti “Made in Italy” di eccellenza, dal Parmigiano reggiano al Grana padano, oltre ai Prosciutti crudi DOC come il Parma e il San Daniele, continuano ad approvvigionarsi con mangimi OGM di origine americana.

Il paradosso è costituito dal fatto che gli alimenti di spicco nell’agroindustria italiana siano realizzati a partire da animali nutriti con farine di soia Ogm, al di fuori di quelli soli certificati come biologici (1). Mentre le multinazionali – dalla Germania in primis – hanno deciso di optare verso le filiere tradizionali, addirittura pure nella produzione di cibi per gli animali da compagnia, c.d. pet food, i quali a loro volta vantano in etichetta la dicitura “OGM-free” (!). Ci si preoccupa quindi di offrire maggiori garanzie sulla sicurezza e qualità dei cibi destinati a cani e gatti rispetto a quelle offerte su latte e prodotti caseari, prosciutti e salumi.

Il perché è presto detto, mentre in Italia si trascorre tempo a raccogliere firme anziché portare avanti campagne di sensibilizzazione sul valore effettivo delle colture tradizionali, in Germania si tende a privilegiare l’integrità della filiera europea “from stable to table”. Financo su alimenti tanto deprecati quali le mozzarelle bavaresi o il latte, e molti prodotti a marca privata, distribuiti anche nei “discount” come LIDL e marcati appunto come “VLOG” (cioè, “senza materiale geneticamente modificato”).

Per approfondimenti sul tema degli OGM, si segnala la nostra pubblicazione a download gratuito “OGM, la Grande Truffa”.

Dario Dongo

Note:

(1) Nelle filiere zoo-tecniche che seguono il metodo bio, e le rispettive regole, non è consentito l’utilizzo di mangimi che contengano o siano derivati da Ogm

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